Vent’anni di piretica relazione con la fantastica avventura, assaporata fino in fondo nel credo del colore e animata nel solitario teatro di una recitazione della malinconia, tra il trascendentale
fantastico di un mondo sensibile, come breve intensissimo rinnovato arsenale delle vicissitudini, essenza stessa di questi quadri, liturgica dello scanning con coagulazione recitante in trame
sommosse e commosse quali irraggianti cavillature con inteneriti effetti di vibrati sentieri.
Graffi lunghi epidermici, scie, strisce come fili di ragnatele filanti del tempo che ci conducono al contributo acuto d’Arianna.
E il colore steso in trasparenza muta, con soprassalti tremanti divorati dalla sensualità, residui di luminescenti citazioni del mitologico, in quanto il colore è di certo legato alle medesime sue origini, al suo dramma iniziale, che si ripete in ogni uomo: «Sia la luce… e la luce fu».
Pittura di ricerca quella di Giulia Gellini, che sembra nascere da un incessante aggrovigliarsi della malinconia, quale replica ai bagliori delle sue esperienze musicali, sino a quello leggero del volteggiare danzando.
Pittura rievocativa della vita con gli spettacolari battiti di atmosfere, spegnimenti di spettri e di genitive aree colorate, di chiazze avventate e sottili costanti decisioni tonali: dal rosso
carminio all’intenso vermiglio, sulla destra, più avanti blu oltremare, poi ancora blu, ecco ora il blu cobalto,...ed è subito… viola; uno slargo, uno spiraglio per l’improvvisa apparizione, dove per
lo più si assesta o s’innesta e si sottende una visione di favole, fiabe del tempo o di tempi di una favola, che attornia e ricerca se stessa.
Gli sfilamenti cupi di raffinate allusioni frazionano le aree del ricordo e dell’anima.
Volute incisive penetranti violano il corpo pittorico in slanci descrittivi sul muscolo del racconto con arresti orizzontali e verticali di emozione, in novero di nascenti memorie visuali nel
silenzio del villaggio dell’immaginazione.
Diciamo magie a regime pittorico d’insaziabilità, scompigli sciroccali di notti mediterranee e albe di spasimi intimi.
Piccoli anfratti di colori vanescenti dalle voci taciturne, griglie colorate di attese dai fiati umani, interpretano con raffiche di pennellate l’inferma dolcezza, dove si stagliano fenditure di solchi eterni misteriosi come stagioni immature e sconosciute, concetto che riferisce mentre ferisce di struggimento.
Sensazioni in cui le tinte si fanno severe, si assottigliano e si affilano come lame o come rasserenate direzioni, come divisioni e clausure della grande notte che si spalanca leggera e si disperde insieme, nello stesso atto del colore deposto, che è tenebra e lampeggio, conoscenza e stupore, percezione e prospettive, striature e quinte.
In questo gesto simbolico “Vertrauen” la confidenza si fa fiducia e la materia pittorica pronuncia il suo enigma con l’appariscente sofisma di raffigurazione ineluttabile; cioè, la sua testimoniale resa poetica e la ricognizione ripetuta del segno quieto di tinteggiatura e di toni, di cromi precisi, ma sempre in tempo utile per liberarsi in un gesto che si fa sigla per diventare sigillo, attraverso l’oleoso scenario il colore fiorisce e inorgoglisce il gesto guida:“Vertrauen”, essendo i ruoli in questo ballo molto diversi, la mano dell’uomo è identificata come quella del marcador e la donna come seguidora, cioè colui che invita al passo colei che lo esegue.
Perfetto particolare di analisi pittorica della Gellini sui gesti praticati che ne fa studio e raffigurazione, che riempiono la commedia della vita, ma sfuggevoli a molti; forse riproposti per intenerire, filtrando la vita alla deriva.
Malinconiosa milonga, forza attiva di danza non secondaria alla pittrice, qui fuoriesce dinamica come uno strappo, come uno scarto del movimento erompe libera arrogante e baldanzosa per stupire.
Una pittura quella della Gellini di irrequieta spiritualità, che mostra la nostra costrizione speculare il nostro atterrito specchiarci nel confuso alterno terrore, in una bruciante infusione di spettacolo pittorico, fatto di delineazione e di traccie, di iconicità nate dai relitti della materia in via di auto estinzione tra cenere e brace, altare e ipogeo.
Palpitanti trame contaminate da incroci e viluppi in contrazioni di coatti strascichi immaginari, immagini di demiurgiche rappresentazioni.
Opere emotive transitorie, sagome allegoriche simboli di una realtà del dolore e del desiderio in via di apparizione o consunzione, oppure personaggi di espiazione.
Sono dipinti dai temi universali, con i loro segreti a lungo perpetrati di pathos, di germinale vitalità e affannosa mirabile indolenza.
Racchiuso nell’embrione del melodramma il segno azione si svincola dagli ostacoli passivi, affermando così l’intimo della pittura di Giulia Gellini.
Questa sua rielaborazione accanita dell’esistenza in senso così esplicito e vero, con azioni operate nel gesto e compiute dagli occhi, per un’anima che intende filtrare le realtà più remote nelle voragini dei misteri, e non una concezione utilitaria estetica, ma storia ininterrotta del soffio latente e bruciante dello sguardo che discende l’oscuro cammino dell’umana visione, passionale, assonnata, tiepida e clandestina.
Fatta di avviluppi di tristezza che rasentano agguati di un silenzio tatuato, venati da abbagli colorati e tracce di aleggianti angolature che danno forma a incroci del vento.
Fruscii di riflessioni lontane e vicine, strascichi di barbagli rappresi popolano l’arsenale delle vicissitudini, e itinerari riflessivi fuoriescono a fiotti policromatici dalla trepidazione; così anche questi quadri, esclamati da timbrici desideri di raffigurare risposte sono parte strutturale di questo fantastico Arsenale della vita.